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Ausonica mestizia

“Sono il libro di un esule, inviato in questa città dove arrivo pieno di timore, e stanco: porgi benevolmente la mano, amico lettore, senza aver paura di doverti vergognare di me; in queste pagine nessun verso dà precetti d'amore. […] Guarda bene quello che porto: non troverai nient'altro che tristezza, una poesia in accordo con il momento in cui è scritta. […] La colpa delle macchie e delle sbiaditure nello scritto è del poeta stesso, che ha sciupato il suo lavoro con le lacrime”.

pag.197, libro III, 1

Busto in marmo di Ovidio
Busto in marmo di Ovidio

Buona parte della biografia di Publio Ovidio Nasone è stata desunta dall’eredità donataci dall’autore stesso, pertanto fu possibile tracciare un profilo della sua vita con dovizia di dati.

Nato a Sulmona nel 43 a. C. da un’agiata famiglia di rango equestre, il giovane Ovidio studiò presso le migliori scuole retoriche di Roma il cui percorso proseguiva, come di consuetudine per la classe dirigente latina, con un soggiorno ad Atene. Al suo rientro ricoprì incarichi minori, ma abbandonò presto la carriera pubblica per dedicarsi all’attività letteraria – che sentiva davvero appartenere alla sua persona. Ebbe contatti con gli illustri Orazio e Properzio, e prese parte alla ristretta cerchia di poeti che gravitavano attorno a Marco Valerio Messalla Corvino.


Ad Ovidio si potrebbe ben consegnare il titolo di Poeta delle Donne, giacché la sua letteratura abbracciò precipuamente i temi dell’amore, dell’arte seduttiva, dell’estetica. Nella prima parte della sua produzione, egli si cimentò con successo nell’elegia erotica, come dimostrano i magnifici Amores e le Heroides, quindi il trio di volumi raccolti nella contestata Ars amatoria, e i Remedia amoris ai quali seguì un piccolo trattato sulla cosmesi, Medicamina faciei femineae, in seno al quale si elargivano consigli e trucchi di bellezza.

Fu poi la volta del progetto di un poema epico con gli impegnativi quindici libri delle Metamorfosi, e del progetto di un calendario – i Fasti – all’interno del quale il poeta intendeva assortire e catalogare, mese per mese, le feste in adozione nel mondo latino, riportandone i significati e le modalità celebrative. Quest’ultimo, però, rimase incompleto giacché la condanna alla relegatio ne impedì la conclusione.

Ad onta dell’esilio Ovidio non smise di scrivere, e fu proprio tra il 9 e il 12 d. C. che compose i commoventi Tristia (“Tristezze”), giunti sino a noi integralmente.

“[…] affezionato lettore, in tutta l’opera non troverai traccia di dolcezza. Lacrimevole è il mio stato, lacrimevole la poesia, in forma consona al suo contenuto. Quand’ero indenne e pieno d’allegria, mi sono divertito con versi allegri e baldanzosi: ma ora mi rincresce d’averli scritti.”

pag. 335, libro V, 1


Solitudine
Solitudine

Le Tristezze ovidiane cristallizzano la dolorosa esperienza e il ventaglio degli stati d’animo del letterato caduto in disgrazia, attraverso una poesia che nasce dal vissuto e che documenta la tormentata esperienza esistenziale che Ovidio fece in una regione tetra e lontana quale la Scizia, attuale Romania.

I Tristia intendono dunque suscitare compassione nei lettori e propiziare il ritorno del poeta nella sua amatissima Roma: in quest’opera di persuasione non troppo velata, istanza primaria per il poeta relegato, fu pertanto di assicurarsi un contatto con le personalità più influenti della città, nella speranza che esse si mobilitassero intraprendendo azioni in suo favore.


La condanna venne imputata ad Ovidio, come dianzi accennato, a cagione del contenuto dei tre libri dell’Ars amatoria, rei di deviare la morale del popolo lettore: essi, responsabili in un certo qual modo della rovina di chi li scrisse, furono perciò accusati financo dall’autore di parricidio già nel Libro I dei suoi Tristia, le cui righe la penna di Ovidio rivolse all’opera con premura quasi paternalistica: “[…] dovrai evitarli o, se avrai abbastanza ardire, dar loro dell’Edipo […]; di quei tre bada, se ti è caro in qualche modo chi ti ha generato, di non amarne neanche uno, anche se è proprio quello che insegnano a fare” (pag. 73, Libro I). L’autore comunica qui direttamente con l’opera in stesura, che sperava potesse giungere sino in terra romana, mettendola in guardia dalla pericolosità degli altri libri ovidiani i quali essa – in qualità di ultima – sarebbe andata ad affiancare sugli scaffali delle biblioteche romane: si assiste ad un’autentica personificazione dell’elegia, con la quale Ovidio dialoga per mezzo di una reificazione che la rende destinatario tangibile in grado di edificare così un ponte con il lettore.


Pare però che la sentenza emessa contro il poeta latino per la sua letteratura fu un mero castigo di facciata: egli, colpevole d’esser stato suo malgrado testimone di un grave reato (cui non venne mai riportata alcuna notizia, né all’interno dell’opera né da altre fonti della storia antica), fu invero punito non tanto per gli Ars amatoria quanto per l’evento criminoso cui assistette, a proposito del quale l’autore accennò di quando in quando con vaghezza e mistero, come a pagina 225 del Libro III: “[…] vengo colpito per avere inconsapevolmente visto un crimine, e la mia colpa è quella d’aver avuto gli occhi”. E ancora, a pagina 231: “Non è breve né sicuro dire in quale circostanza i miei occhi sono diventati complici di un funereo misfatto; il mio animo rifugge con paura dal richiamare quel momento […] e col ricordo il dolore stesso si rinnova”.

Apparirebbe poco credibile, dunque, l’imputazione inferta: ecco perché Ovidio provvede a fornire ai suoi lettori una lunga serie di autori e poeti che nei loro lavori letterari trattarono i medesimi temi da lui indagati ma che, contrariamente a lui, non subirono censura alcuna né furono ingiustamente sottoposti a relegazione o esilio – come sfogò a pagina 187: “Non temevo, lo ammetto, navigando per acque già solcate da tanti, di essere il solo a far naufragio dove tutti invece erano passati indenni”. E ancora, un paio di pagine dopo: “In conclusione, di tanti scrittori non ne vedo neanche uno che sia stato rovinato dalla sua vena poetica: l’unico che si trova sono io.”

Nelle Tristezze si partecipa ad una fusione tra poeta e protagonista, la cui coincidenza è così manifesta che il ruolo del poeta diviene quasi irrilevante, permettendo alla vera protagonista di mostrarsi in piena luce: la letteratura. Analizzando l’opera si evince come essa erediti dall’elegia ‘lieta’ e d'amore degli anni giovanili alcune tendenze didascaliche, un’ars vivendi che nei temi affrontati fanno eco a quelli ciceroniani sull’amicizia e a quelli oraziani delle epistole: nei Tristia però i precetti esposti dall’autore sono ricavati direttamente dalla sua vicenda, esperita dall’interno, ed esplicitati tramite lezioni impartite sul momento con indicazioni volte a suggerire un vademecum di comportamenti adeguati: Ovidio stila un prospetto di rimprovero per le azioni mancate attraverso un “piccolo capitolo di galateo, dedicato a quello che le convenienze richiedono quando a un amico o conoscente capita una disgrazia: andarlo a trovare, portargli qualche parola di conforto, esprimere i sensi del proprio dispiacere” (pag. 40); inoltre, egli invita a vivere nella modestia – evitando di esporsi eccessivamente e prediligendo una vita che non causi le altrui invidie, dando luogo ad una formulazione ovidiana del precetto epicureo già in precedenza ripreso da Orazio in Epistolae (“Nec vixit male qui natus moriensque fefellit/ e non visse male chi nacque e morì stando nell’ombra”).

“Credimi, vive bene chi resta ben in disparte, e ognuno deve tenersi entro i limiti assegnati dalla sorte. […] Anche tu abbi sempre timore di ciò che sta troppo in alto, e riduci, ti prego, le vele dei tuoi progetti; sei degno di percorrere senza incespicare l’arco della tua esistenza e di aver un destino più sereno […]. Vivi senza destare invidia, e trascorri dolci anni non toccato dalla gloria”

pag. 217, Libro III



Un’elegia dell’esilio che assume alcuni tratti della figura di Ulisse quale paradigma dell’uomo sofferente (si rammentino alcuni tipici elementi dell’epicità omerica, quali il lungo viaggio verso terre lontane, l’esperienza in paesi sconosciuti e perigliosi, l’anelito al ritorno in patria e il ricongiungimento ai propri cari e familiari), una simmetria la cui specularità arriva quasi ad una fusione tra il poeta latino e l’eroe Odisseo. Nel suo esilio, Ovidio viene trasportato in un mondo che sino ad allora aveva guardato solamente dall’esterno, divenendo in tal guisa protagonista della sua storia, e acquisendo il pieno diritto di entrare in quelle altrui – miti inclusi, come ben espresso da Francesca Lechi a pagina 16: "Il difficile compito che attende Ovidio è di farsi al tempo stesso Ulisse e Omero, di essere il cantore delle proprie vicissitudini proprio mentre le vive” (tratto da I ‘Tristia’ ovvero delle regole per vivere nella letteratura).


Nei cinque libri emergono poi altri interessanti rilievi, come la celebrazione dello spazio della città di Roma, capitale di ricchezza e attrattive, luogo di convivenza tra privato e pubblico ed emblema della civiltà, ma anche la figura della moglie – resa eterna attraverso il paragone con le donne cantate dai poeti illustri e con le eroine della mitologia classica (riprendendo Andromaca, Laodamia e Penelope), quali simbolo di devozione coniugale, dalla quale ci si aspetta coerenza e costanza.

Il tema dell’amicizia che volta le spalle quando la sfortuna si manifesta era stato già ampiamente discusso ai suoi tempi, ma Ovidio lo illustrò con dovizia di molteplici exempla, sperimentando su sé stesso tale doloroso assioma dalla proverbiale coloritura, come riportato dalla Lechi a pagina 39: “[…] la vicenda di Ovidio, che viene proposta come l’esempio incontrovertibile di quella legge universale: quando nella vita di una persona arrivano i tempi bui e difficili, i multi amici si rivelano mobile vulgus, gente incostante e pronta a mutare atteggiamento.”

“È proprio vero che, come l’oro fulvo si vede alla prova del fuoco, l’amicizia va verificata nei momenti difficili. Finché la sorte si mostra propizia e sorride con volto sereno, tutto va dietro a chi è in tal intatta condizione; ma appena il brontolio del tuono si fa sentire, è fuga generale, e chi fino a poco prima era attorniato da schiere di amici diventa uno sconosciuto: questo una volta lo sapevo in base agli esempi dei tempi andati, e ora mi risulta vero dalle mie sventure personali. Di tanti che avevo, siete appena due o tre voi che mi restate amici: gli altri erano compagni della buona sorte, non miei.”

pag. 101, Libro I


Una rampogna, quella di Ovidio, verso anonime amicizie “con vene di pietra e cuori di ferro”, cui rinfaccia la durezza animo con la quale esse gli voltarono le spalle nel momento più tragico della sua intera esistenza.

“Finché si è sani e salvi si hanno amici in gran numero; ma quando il cielo si fa nuvoloso si resta soli. Lo vedi, le colombe volano ai tetti imbiancati, mentre una torretta trascurata non accoglie nessun uccello; le formiche non si dirigono mai verso i granai vuoti: nessun amico si recherà da chi ha perso tutto. E come l’ombra accompagna chi cammina illuminato dai raggi del sole (e sparisce, quando questo è nascosto dalle nuvole), così la gente, incostante, segue lo sfavillio della fortuna: se ne va appena arriva una nuvola a coprirlo.”

pag. 132, Libro I, 9


Le Tristezze ovidiane narrano dunque l’esilio (in una terra inospitale, pericolosa nonché selvaggia) come morte – e la figura dell’esule come ‘morto vivente’ – tema ripreso nelle varie pagine a tambur battente (“Parto se era un partire, e non piuttosto un andare alla sepoltura senza essere morto […]” pag. 91). La descrizione della Scizia è intrisa di immagini sconfortanti, il resoconto del viaggio da Roma a Tomi (attuale Costanza) pare davvero essere scritto con un inchiostro di copiose lacrime che testimonia la nostalgia, la rabbia, il senso di abbandono, di incomprensione e tradimento provati dall’autore.


I Tristia sono un’opera di introspezione emotiva la cui copertina raffigura l’infelicità, ma le cui pagine narrano un grandissimo desiderio di vita.

“Infine non vado alla ricerca né di gloria né di fama, che spesso dà pungolo all’ingegno: voglio soltanto evitare che l’animo si maceri per le continue angosce, che tuttavia mi assalgono ed entrano dove non devono. Ho spiegato perché scrivo: volete sapere perché vi invio i miei scritti? Perché desidero stare con voi, in qualsiasi modo.”

pag. 341, libro V


 

Immagini

In copertina: Il penitente Girolamo nel deserto ("De boetvaardige Hiëronymus in de wildernis") di Jan Lievens, olio su tela (1531), Museum De Lakenhal: web

Busto di Ovidio, scultura in marmo (I secolo), Galleria degli Uffizi, Firenze: Storica di National Geographic

Solitudine di John Martin, olio su tela (1843), Laing Art Gallery – Newcastle Upon Tyne: web

Consultazioni

Tristezze (“Tristia”) di Publio Ovidio Nasone, BUR Classici greci e latini, 2000


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