“È comunque certo che, grazie a Plauto, l'avaro che ama il suo tesoro più di una figlia è uno dei grandi temi che, in molteplici adattamenti, attraversa tutte le letterature europee, con singolari riscontri nella realtà quotidiana anche d’oggi (…)”.
Cesare Questa, introduzione alla commedia Aulularia.
Tito Maccio Plauto, oriundo di Sarsina nell'attuale terra umbra, fu uno dei massimi esponenti della letteratura latina, il cui riconoscimento di prestigio – seppur discontinuo nella storia, come spesso accade – lo assurge a padre della commedia arcaica.
In età ciceroniana, Plauto non venne solo letto e rappresentato ma fu anche oggetto di dispute filologiche, e nelle orazioni di Cicerone sono frequenti le citazioni del Sarsinate quale modello di purezza ed eleganza di lingua. Durante la fase augustea, per converso, l’ammirazione per il commediografo venne meno, come riscontrabile nella posizione assunta da Orazio il quale non ne amava né la lingua né la comicità.
Fu quindi al termine del I secolo d. C. che, grazie alla reintroduzione nel circuito culturale – per mano del grammatico Valerio Probo – degli autori del periodo arcaico, Plauto tornò ad occupare un posto di enorme rilievo divenendo nuovamente un autore à la page, non tanto sulla scena bensì quale lettura dei retori e nei salottini degli aristocratici colti, ove “la filologia plautina era anche uno dei “giochi” letterari di cui si compiaceva la società brillante della felice età antonina” e in seno alla quale “gli autori di questa età ostentano l’uso di vocaboli plautini” tanto che financo Apuleio ne prese in prestito lemmi rari che verranno in seguito inseriti “con gusto e abilità nel cangiante tessuto linguistico delle sue Metamorfosi”. (pag. 50, ibidem)
Non si trascuri poi la conservazione della grandezza stilistica di Plauto durante la Roma repubblicana e l’Alto Medioevo, eccellenza resa adamantina con l’utilizzo del cosiddetto sermo familiaris romano alla base del linguaggio della conversazione quotidiana, una “lingua stupendamente sciolta ed espressiva, che utilizza ogni virtù del lessico e della sintassi del latino arcaico” (pag. 42, “Fortuna di Plauto: A. Nella Roma repubblicana e nell’Alto Medio Evo”, ivi).
Ciononostante, durante il Basso Impero e Medioevo la fortuna di Plauto fu claudicante: attorno al III secolo d. C. autori di vasta mole quali Varrone (e per ciò stesso Plauto, i cui lavori erano raccolti nelle Varronianae) furono in gran parte perduti a causa della crisi sociale, economica e culturale “che devastò le biblioteche” (pag. 51 “B. Nel Basso Impero e nel Medioevo (I Codici di Plauto)”, ivi).
Fu con la tetrarchia diocleziana e successivamente sotto il regno di Constantino che l’eredità plautina ritrovò una vera stabilità, tanto che al termine del XV secolo ne fu indubbia la grande fortuna presso le molteplici corti rinascimentali della penisola; e se nei primi del Cinquecento Plauto venne ufficialmente nominato padre di tutto il teatro comico europeo (inclusa l’opera buffa), a partire dal 1667 con L’avare di Molière, Plauto divenne a tutti gli effetti modello indiretto sulle future letterature europee.

Aulularia (o “La pentola del tesoro”) fu una commedia composta fra il 195 e il 184 a. C. Il titolo dell’opera e il suo protagonista sono palesemente ispirati al Menandro e al suo Dýskolos (“Il misantropo”), e il tema portante è l’avarizia, vizio capitale correlato al sospetto e alla paura collerica dell’essere defraudati. Commedia dalla struttura semplice, l’Aulularia fu una delle più lette ed imitate (già nel IV secolo d. C. se ne attesta una elaborazione in prosa ritmica, dal titolo Querolus), con uno schema d’azione chiaramente mutuato dal modello greco.
Euclione, il protagonista, si impossessa indebitamente di un tesoro (una pentola d’oro trovata nel giardino di casa) e la sua gelosa ed ossessiva veglia su di esso si rivelerà fonte di affanno e permanente ambascia. “Solo il trasformarsi in dote della figlia – cioè il ritrovare ad essere un bene ‘strumentale’, da cui ricavare legittima proprietà – toglieva all’oro la sua sinistra funzione”. (pag. 69, introduzione di Cesare Questa).
Di grande splendore lessicale giacché ricchissimi della più squisita invenzione verbale plautina, i dialoghi e i soliloqui di Euclione culminano nella ‘scena di pazzia’” (pag. 71, ibidem), sebbene non siano da meno le battute pronunciate dal personaggio di Megadoro, figura “originariamente piena di bon ton, di buoni sentimenti ‘borghesi’ .
“Sono perduto! Sono morto! Sono assassinato! Dove correre? Dove non correre? Fermalo, fermalo! Fermare chi? Chi lo fermerà? Non so, non vedo nulla, cammino alla cieca. Dove vado? Dove non vado? Chi sono? Non riesco a stabilirlo con esattezza. […] Che bisogno ho di vivere, ora che ho perduto tutto quell’oro che avevo custodito con tanta cura! Mi sono imposto sacrifici, privazioni; ed ora altri godono della mia sventura, della mia rovina. Non ho la forza di sopportarlo.”
Euclione, atto quarto, scena nona

Giocosa leggerezza e immediata comicità a permeare ogni scena sono appannaggio della commedia che, come sarà poi anche in Molière, tratteggia l’identità dell’avaro il cui egoismo scatena un sospetto infondato rasente la paranoia, il quale gli benderà gli occhi ora convinti di vedere unicamente – come affetto da un tragico miraggio – una minaccia ai suoi averi: il personaggio plautino si identifica dunque con l’avaro, reso cieco a tal punto da non accorgersi nemmeno della gravidanza della propria figlia, tormentato da sospetti continui che finiscono per sottrargli ogni barlume di lucidità mentale.
La lezione plautina può essere pertanto posta, ermeneuticamente, come antesignana della morale cristiana quale invito alla sobrietà e all'utilizzo morigerato dei beni materiali: un precetto di vita che a tutt’oggi, in un’epoca sociale sovrappopolata da filantropi pitocchi, dovrebbe invero fungere da imperativo categorico.
“La pomice non è tanto arida quanto questo vecchio […] Egli va proclamando che i suoi averi son perduti e che è rovinato, e invoca la protezione degli dèi e degli uomini, ogni volta che un filo di fumo esce dal ceppo del focolare. E quando va a dormire, si stringe alla gola una borsa di cuoio per non perdere un briciolo di fiato mentre dorme. […] Vuoi saperne un’altra? Quando si lava, si lagna dell’acqua che versa. Se gli chiedessi in prestito la fame – per Ercole! – non te la darebbe”.
Strobilo ad Antrace, atto primo, scena quarta

Immagini
In copertina: Avaro, ritratto di un uomo di Maestro dell’annuncio ai pastori, olio su tela (1635-1650), Collezione Borbone presso Museo Capodimonte (Napoli): Catalogo Generale dei Beni Culturali
The Miser di Jean Baptiste Le Prince, olio su tela (XVIII secolo), collezione privata: web
La morte dell’avaro (dettaglio architettonico), foto di Javier Gago: articolo Abita a Rebolledo l’avaro più generoso di Giulio Giuliani, Appunti sull'arte romanica e sul tempo romanico: Before Chartres
Allegoria dell’avarizia di Giuseppe Nogari, olio su tela (XVIII secolo): Antichità Ischia
Consultazioni
La pentola del tesoro (“Aulularia”) di Tito Maccio Plauto, Classici della BUR, Biblioteca Universale Rizzoli, 1997