Nella sua intrinseca presunzione, l'essere umano si è posto sin dal principio al di sopra di tutto, e di tutti, dimentico della sua finitudine e della sua piccolezza rispetto ad un mondo il quale – così come lo ha creato – lo può distruggere: un universo le cui meraviglie sono riflesse come chiaroscuri nell'uomo stesso.
A dipingere la portentosa natura delle cose si dedicò Tito Lucrezio Caro, esimio poeta appartenente al panorama latino della prima metà del I secolo a. C. che con un’originale – ma ponderata e motivata – scelta stilistica indirizzata alla diffusione del pensiero filosofico epicureo, ne tentò il tratteggio di luci e ombre.

Vita e personalità dell’autore sfuggono nella loro quasi totalità ad onta di una vita vissuta tra due guerre civili, quasi senza lasciar traccia in un periodo storico estremamente ricco di avvenimenti.
La condizione sociale e l’ambiente di formazione e attività sono a tutt’oggi avvolti nel mistero; la mancanza di dati biografici attendibili e le pochissime attestazioni rinvenute fecero sì che le relative ricostruzioni attinsero dal Chronicon di San Girolamo, tra le altre, la notizia della follia ipoteticamente attribuita al poeta latino, condizione che secondo il teologo biblista portò Lucrezio al suicidio (informazione in seguito respinta in quanto probabile invenzione cristiana volta a screditare il poeta romano ritenuto colpevole della paternità d’una dottrina intrisa di materialismo e antiprovvidenzialismo e, per ciò stesso, in inconciliabile contrasto con i princìpi della religione cattolico-cristiana).
"La frequenza di immagini possenti e allucinate, un certo compiacimento verso gli stati patologici del corpo o dell’anima, l’insistenza sugli effetti nefasti della religione e del timore della morte, la convinzione della decrepitezza del mondo, la particolare sensibilità dell’artista per gli stati di ansia o di tedio, sono segni di una fantasia morbosa e depressa, o piuttosto di una sguardo capace di squarciare la crosta della banalità quotidiana?”
pag. VIII, introduzione al De Rerum Natura, di Emanuele Narducci
Tra le fila della critica a Lucrezio si trova senz’altro Cicerone il quale però, se da un lato evidenziava negli scritti del filosofo Epicuro un’adamantina “carenza di ogni attrattiva stilistica e letteraria, e di un ordinamento coerente dell’esposizione”, dall’altro riconosceva nella penna lucreziana un certo raffinato impegno che sottraè il poema alle lacune riscontrate al maestro della scuola di pensiero ellenistica e – di più – consegnò al De rerum natura il beneplacito della classe dirigente repubblicana.
Composizione collocata dagli studiosi attorno alla prima metà degli anni cinquanta, l’opera fu a lungo ignota e ignorata prima del 1417 – anno del celebre ritrovamento del suo manoscritto per merito dell’umanista Poggio Bracciolini.
Dedicatario del componimento divulgativo fu l’aristocratico Gaio Memmio, personalità di spicco nel milieu politico romano, la cui gens vantava discendenze da Venere; di vasta cultura ma senza nutrire simpatie verso il pensiero epicureo, Memmio – quale lettore da persuadere – si delinea in seno al poema nella sua potenzialità di discepolo incerto, a tratti sconfinante nella figura di avversario da piegare (alla dottrina atomistica) per mano di una dialettica che non esclude tuttavia l’apertura ad una proattività coinvolgente il lettore-discepolo, accompagnandolo alla liberazione degli irrazionali timori attraverso una filosofia veicolata non come d'abitudine con fecondi scritti in prosa, bensì dalla lirica – cui Lucrezio attribuisce ora un ruolo puramente protrettico (volto, dunque, ad ammaliare i neofiti), ora un mezzo per la conquista della fama, nella speranza di inserirsi tra gli illustri nomi della tradizione letteraria quali furono Omero ed Ennio.
Ciò spiega la cesura nella moderna critica, scissa tra i partigiani del Lucrezio poeta e quelli del Lucrezio filosofo. Il De rerum natura: carme filosofico o filosofia poetica? Appare evidente, nella conservazione dell’aderenza scientifica della dottrina sull’indubbia qualità letteraria, l’importanza di mantenere congiunti in Lucrezio il profilo di poeta e quello di filosofo, come dimostra la sua opera – impeccabile connubio di arcaismo e poesia didascalica alessandrina.
I dialoghi filosofici, a giudizio di Cicerone, furono indirizzati ad un pubblico colto benché non elitario. In essi Lucrezio, vestita l’armatura di pioneristico alfiere della verità epicurea, si pone l’obiettivo di “spogliare il suo destinatario di ogni illusoria ambizione e di ogni falsa credenza, per porlo di fronte allo spettacolo sublime e terribile, ma anche liberatorio e rasserenante, della verità ultima della Natura” scegliendo un linguaggio chiaro e preciso, in perfetta coerenza con l’esposizione retorica epicurea orientata alla trasparenza contenutistica. Ecco spiegata la scelta stilistica operata dall’appassionato verseggiatore romano, secondo il quale solo la forma poetica poteva essere davvero in grado di trasmettere “lo spettacolo grandioso e sublime della natura […] in tutta la sua magnificenza.”
“Tra le immagini di più incredibile potenza visionaria del De rerum natura vi sono quelle in cui Lucrezio dipinge l’eterna irrequietezza degli atomi, la loro cosmica “danza”, ma anche il loro ingaggiare lotte e conflitti destinati a comporsi solo temporaneamente nelle configurazioni effimere ed instabili dalle quali risulta il mondo noto e familiare.”
pag. XIII, introduzione al De Rerum Natura di Emanuele Narducci
L’opera lucreziana è dotata di una struttura ben delineata: a incorniciare ciascun libro vi è un proemio (i quali, ad eccezione dell’inno a Venere del libro I, sono panegirici al maestro Epicuro – “padre e discopritore delle cose”, eroe liberatore degli uomini dalla paura cagionata dalla superstizione e dall’oscurantismo religioso) e un finale. I sei trattati in esametri si articolano in tre coppie: i primi due discettano sulla fisica e sulla composizione del mondo (ove viene snocciolata la teoria degli atomi, quindi la materia e il vuoto), cui seguono i volumi intermedi a tema antropologico sui fenomeni e sull’anima (in cui si approfondisce, corredato da prove e dimostrazioni, l’uomo e la sua mortalità) e infine l’ultima coppia, la quale raccoglie i precetti della dottrina cosmologica, e argomenta sull’origine e sulla finitudine di un mondo governato – è bene ricordarlo – dalle sole leggi della natura e dal caso. La dovizia di metafore e analogie conferisce a Lucrezio il titolo di “poeta visivo”, che sfrutta magistralmente tali tecniche letterarie per creare nel lettore una percezione immediata di quanto esposto, come testimonia il costante ricorso alle immagini della quotidianità utili a favorire la comprensione del pensiero epicureo, riducendo in tal guisa il divario tra visibile e invisibile, tra noto e ignoto (memorabile ed emblematico il celebre pulviscolo danzante nel raggio di sole, a spiegare il moto degli atomi nel vuoto).
“[…] non solo gli spettacoli maestosi e terribili, come quelli offerti dai terremoti o dalle eruzioni vulcaniche, o le macabre, agghiaccianti immagini di morte, ma anche lo scintillìo di eserciti in manovra osservati dall’alto di un colle, lo splendore del cielo riflesso in una pozzanghera, le pietre che selciano le strade, i panni stesi ad asciugare, i panorami marini, le conchiglie sulla spiaggia e i colori cangianti della coda del pavone, le strida degli uccelli, il sonno agitato dei segugi e dei cavalli, la tenerezza dei molossi verso i loro cuccioli, la giovenca desolata per la sorte del vitello destinato al sacrificio da una religione crudele […]”
pag. XXIII, introduzione al De Rerum Natura di Emanuele Narducci

A giudizio di Epicuro, la conoscenza della natura era funzionale alla garanzia di una vita serena, posta invece a repentaglio dalla spietata crudeltà esercitata dalla ‘religio’ cui Lucrezio ne denuncia la mostruosità: essa, per il poeta latino, sottomette l’uomo riempiendo l’esistenza di timori che ne annichiliscono le gioie conquistate; questo accanimento da parte dell'autore permea ogni capitolo dell’intera opera in un’autentica anti-crociata contro la religione, sorgente di un’angoscia generalizzata di fronte all’accettazione della morte quale parte della vita stessa, e percepita anzi come foriera di sciagure per l’umanità: tale timore alimenta, per Lucrezio, quelle passioni – la sete di ricchezza, potere e gloria, i bagni di sangue dei conflitti civili – che agiscono sulla coscienza dei singoli, allontanandoli da un’esistenza pacifica e razionale. A scongiurare ciò il poeta invita ad accogliere pacatamente la morte, ritirandosi come un “convitato sazio” una volta terminato il lauto banchetto: exemplum divenuto poi celebre, per il tramite del quale Lucrezio esorta il lettore ad alzarsi dal tavolo senza rimpianti, e lieto del tempo trascorso. Bando dunque, dinanzi alla morte, alla tristezza e largo alla serenità e all’atarassia tanto per una vita benevola e ricca di soddisfazioni, quanto per una meno fortunata. Così nel terzo libro Lucrezio prova a rendere edotto il lettore della circostanza della morte (elemento perturbatore par excellence) e di come ci si dovrebbe atteggiare al suo cospetto; un classico topos epicureo, la cui dottrina viene – ancora una volta – restituita al lettore con il prezioso ausilio di una mise en forme metrica.
L'anima pertanto, quale semplice conglomerato di atomi, non è eterna e della sua caducità bisognerebbe giubilare dacché deterrente per rimpianti. Sulla sua mortalità il poeta insiste a più riprese, esponendo molteplici prove che mirano a persuadere il lettore che quanto accade dopo la morte (definita “pace senza più ansie”, pag. 182, libro III) non riguarda più colui o colei che l’hanno vissuta, facendo inoltre notare con arguta e pungente ironia come gloriosi nomi della storia dovettero soccombere al Tristo Mietitore non diversamente dagli uomini più comuni.
“Il messaggio ultimo di Lucrezio sembra consistere nel suggerimento che non nelle difese del progresso tecnico e civile, ma solo nella serena accettazione delle leggi naturali propugnata dalla dottrina epicurea, l’umanità può trovare ristoro dalle calamità che la affliggono”
pag. XXI, introduzione al De Rerum Natura di Emanuele Narducci
Emerge in questo tratto d’opera “la nullità di ogni grandezza, e la vanità della gloria”. Lucrezio si fa portavoce di una dottrina capace di insegnare all’uomo a “liberarsi da una stato di soggezione e di sgomento, aprendosi all’eroica comprensione delle leggi che reggono il destino di tutti gli esseri; e di istituire i fondamenti di una morale che permette di vivere serenamente entro i limiti della condizione umana”.

A chiudere il poema l’orrore della peste che colpì Atene, in violento contrasto con la meravigliosa bellezza del mondo narrato fino ad ora: il lettore viene così tragicamente congedato, lasciato con la sensazione di un male inevitabile eppure insito nella sua stessa natura. L'incurabile morbo quale metafora dell’abbruttimento e del degrado della vita umana – di un popolo malato, corrotto da un’insaziabile sete autodistruttiva – si riflette con agghiacciante crudezza nell’immagine finale della folla che va accalcandosi disperatamente, in una hobbesiana lotta ante litteram.

Immagini
In copertina: Stagno ai margini del bosco (“Pond at the Edge of a Wood”) di Etienne-Pierre Théodore Rousseau, olio su tela, Musée de Grenoble: web
Busto di Epicuro, scultura in marmo, Sala dei filosofi presso Musei Capitolini: web
Eruzione del 1771 da Portici (“An Eruption of Vesuvius seen from Portici / Vesuvius from Portici”) di Joseph Wright of Derby, olio su tela (1774/76): The Huntington Library, Art Museum, and Botanical Gardens di San Marino (USA)
Vanitas Natura morta (“A Vanitas Still Life”) di Pieter Claesz, olio su tela (1630): Pinacoteca Mauritshuis
La quinta piaga d’Egitto (“The Fifth Plague of Egypt”) di Joseph Mallord William Turner, olio su tela (1800): Indianapolis Museumof Art
Consultazioni
La natura delle cose (“De rerum natura”) di Tito Lucrezio Caro, Oscar Classici, Mondadori, 2020